giovedì 26 aprile 2012

19. Berlin bei Nacht

Durante le serate infrasettimanali rimanevamo murati vivi all'interno dello studentato, vittime di un'infelice rete di trasporti notturni. Per passare il tempo si organizzavano megacene di gruppo, estenuanti sedute di gossip selvaggio, o party a tema. Si andava dalla festa "tutti col cappello!", ideata da braccia rubate alle giornate della moda milanese, a "la nostra terra è l'Africa", in cui, più pallidi di una mozzarella di bufala, ci scatenavamo agitando i nostri sederoni in danze tribali, sotto lo sguardo allibito e divertito dei numerosi keniani presenti.

Allo scattare del week end, invece, si migrava in massa, vocianti e felici, verso le feste ed i locali che Berlino aveva da offrire. Le varie facoltà organizzavano quantità incredibili di serate per Erasmus, come se l'università tedesca, sotto sotto, fosse convinta che non fossimo in grado di gestirci e divertirci da soli. E certo! Solo un'istituzione teutonica può seriamente pensare che migliaia di ventenni, provenienti da ogni angolo della terra, abbiano bisogno di essere presi per mano e guidati per socializzare tra loro. Del resto, eravamo tutti così timidi e riservati.

Ma mentre gli Erasmus Party si susseguivano, tutti uguali uno dopo l'altro, noi iniziammo l'esplorazione della vera vita notturna berlinese, quella ErasmusFree. Perché ogni tipico studente Erasmus ha un solo obiettivo finale e definitivo: non essere un tipico studente Erasmus. Distinguersi dalla massa per poi mimetizzarsi abilmente nella vita di società all'ombra della porta di Brandeburgo.
Seppur con il mio maccheronico tedesco, io lo dicevo forte e chiaro: "Wir muessen integrieren!" (*)

In Germania a quei tempi, e forse anche adesso, andava molto di moda la musica techno. Andare a ballare voleva dire andare a ballare la techno. Andare in discoteca voleva dire andare in discoteche tecno. E via dicendo. Io e gli allegri figuri con cui mi accompagnavo avevamo, tra le altre cose, una caratteristica comune: schifavamo la musica techno. Tutti. Tutti tranne Gra', ma lei non contava perché alle 22:30 già c'aveva sonno, perdendo ogni diritto di scelta e opinione.

Sotto la guida di Ben, il nostro britannico cicerone che lavorava a Berlino già da qualche tempo, ci lanciammo nella ricerca di locali dove la facessero da padrone t-shirt stropicciate invece di aderenti magliettine in lycra. Dove trionfassero capigliature selvagge invece che ciuffi scolpiti. Dove risuonassero ancora i vecchi successi dei Nirvana invece che l'orrido tunz tunz tunz.
Luoghi dove pogare fosse un'arte e anche una vocazione.

I nostri tre principali punti di riferimento divennero: l'Uni Club, il Sage Club, e il Nonmiricordocomecacchiosichiamava Club.

Ecco, all'alba del diciannovesimo capitolo, per la prima volta, la mia memoria di ferro mostra una falla: il Nonmiricordocomecacchiosichiamava Club. E pensare che l'abbiamo frequentato tantissimo, con la sua scalinata subito dopo l'ingresso, i cubi ai bordi della pista, e le strobosfere economiche. E pensare che, a distanza di tanti anni, tra quelle scolorite quattro mura si parla ancora delle italiane. Quelle che bisognava sbattere fuori a calci, che non lasciavano la pista neanche quando ormai era deserta, che non si sedevano mai ma piuttosto sfilavano via le scarpe, e riprendevano a scatenarsi a piedi nudi. Fastidiose, egocentriche ma piene di vita.

Il Sage Club era un posto particolarmente noto e di tendenza. La maggiore attrazione del locale consisteva in un drago che spuntava da una parete e, periodicamente, lanciava impressionanti fiammate dalle proprie fauci spalancate. Ad ogni rovente alitata nell'ambiente si spandeva un gradevole teporino e un inconfondibile puzza di capelli bruciacchiati, poiché qualche lungagnone sprovveduto e un poco pirla che ballava troppo vicino al mitologico rettile lo si trovava sempre.
Inoltre, scendendo le scale e superando una cortina fumogena data dagli effetti speciali e la forte umidità, si accedeva al piano inferiore, dove la musica si faceva più rock e i pogatori più spietati. Praticamente il paradiso.

Ma la mia più grande passione era e rimane quella spartana bettola sotterranea chiamata: Uni Club. Fu lì che scoprii quanto i tedeschi potessero diventare socievoli se sufficientemente ubriachi. Fu lì che capii che avere come guida un ragazzo inglese avrebbe messo a dura prova i nostri fegati. Fu lì che imparai che gli U2 in terra germanica non vengono chiamati U-zwei, come brillantemente chiesi al dj che infatti si sta ancora rotolando a terra dal ridere, ma U-two.
Fu lì che collezionai un altro dei miei memorabili episodi. La cosa non vi stupisce, nevvero?
Un ragazzo tedesco mi chiese sommessamente e con fare furtivo delle cartine per rollarsi una canna ed io, che ovviamente non avevo capito una mazza ma morivo dalla voglia di rendermi utile, feci partire un chiassoso passa parola che manco il telefono senza fili all'asilo è in grado di creare uno scompiglio tale. Che poi, onestamente, io sarò anche rimbambita ma, se i tedeschi ogni tanto si sforzassero di usare un minimo di gestualità ed il tizio si fosse limitato a fare il gesto internazionale del rollaggio canne (l'oscillazione simultanea antero posteriore di entrambi i pollici), ci saremmo risparmiati tutti tanta fatica e mezz'ora d'incomprensibili traduzioni.

Ma, soprattutto, fu all'Uni Club che venni in contatto per la prima volta con la musica tedesca e con i mitici Die Aertze e la loro "Zu spaet". L'inno definitivo di tutti i patetici cuori spezzati che non si arrendono di fronte alla realtà e sognano finali alternativi in cui primeggiare.
Il protagonista della canzone, uno sfigato ignorante, squattrinato e innamoratissimo, viene lasciato e, dopo aver passato due settimane a piangere come un pupo, scopre che la sua ex si è messa con un tipo sofisticato e pieno di soldi. Oltre il danno la beffa!
La rivalsa fisica è fuori discussione poiché il nuovo ragazzo, l'odioso figuro, è anche campione di Karate, e allora il nostro teutonico cuore infranto non può far altro che sognare un futuro di successo. Un futuro in cui avrà tutto ciò che vuole, spezzerà il cuore a mille ragazze adoranti e quando lei tornerà, perché l'infida approfittatrice sicuramente tornerà, le sbatterà in faccia un bel Zu spaet! Troppo tardi!
Un gioiello d'ironia, ebbene sì anche i tedeschi sanno essere ironici, e ritmo travolgente.

Avanti, cantiamo tutti assieme la nostra rivalsa. Urliamo al cielo la nostra vendetta. Prendiamoci al fine la giusta soddisfazione: "Zu spaet, zu spaet, zu spaet!"

Lo so che la qualità del video è incommentabile, ma non trovate anche voi che dia al tutto un affascinante tocco molto "Berliner Graffiti"?
Comunque, per una versione più recente, cliccate qui.

Continua...

(*) La mia intenzione era quella di dire "Dobbiamo integrarci", ma in realtà me ne uscivo con uno sgrammaticato e criptico "Noi dobbiamo integrare"

venerdì 13 aprile 2012

18. God save the King

Sissi, Eli ed io eravamo stanche di vedere sempre le stesse facce, di frequentare sempre gli stessi luoghi, di restare sempre agli arresti domiciliari all'interno dello studentato. Ci sentivamo come quei tristi vacanzieri che volano dall'altra parte del mondo per poi chiudersi in un villaggio turistico, a mangiare pennette al pomodoro e giocare a calcetto con il capo animatore di Cinisello Balsamo.
Quindi, in cerca di nuova vita e nuovi incontri, mollammo la festa da poveracci e puntammo verso il centro.

Non ci importava che avremmo impiegato 40 minuti per andare e che, al ritorno, il Nachtbus ci avrebbe lasciato lontane da Schlachtensee, costringendoci a camminare in piena notte per una strada semibuia, fredda e deserta. Non ci importava di non avere punti di riferimento o mete precise. Non ci importava neanche che gli altri ci considerassero, più o meno apertamente, un trio di boriose, guastafeste, incontentabili.
Il nostro posto era tra locali e confusione. Il nostro posto era il centro della scena. Il nostro posto era il cuore di Berlino. Non un quartiere dormitorio mal servito e privo di qualsiasi attrattiva.
L'Erasmus ce l'eravamo guadagnato ed ora avevamo il sacrosanto diritto di godercelo.

Tanto spirito d'iniziativa venne immediatamente premiato e, mentre eravamo ancora in attesa alla fermata del bus, vedemmo avvicinarsi un gruppo di giovani, anche loro appena usciti dal pub.

C'era lo slavatissimo gemello buono di Draco Malfoy, che tentò un infruttuoso approccio con la sottoscritta. No, non era brutto. No, non facevo la preziosa. Ma i problemi di comunicazione mi rendevano particolarmente timida. Il mio tedesco zoppicante per i primi mesi limitò un po' la mia vita sociale e moltissimo quella sessuale. Non fu un caso che decisi di iscrivermi a ben due corsi di lingua contemporaneamente.
Pensavate davvero che l'avessi fatto solo per l'università? Mafatemiilpiacere!

Poi c'era il tipo ubriaco come una cucuzza.
Camminava incerto, sbandando ad ogni passo, con le palpebre semichiuse e l'aria di chi fosse in procinto di vomitare, e stesse solo decidendo sulle scarpe di chi.
Sissi, con il suo 42 di piede, era sicuramente quella più in pericolo.

Ed infine c'era lui: il belloccio.
Si avvicinò alla mappa della città esposta sotto la pensilina e sentenziò lapidario: "We're in the middle of f#cking nowhere!"
Con una sola frase era riuscito a sintetizzare settimane di nostre lagnanze circa l'infelice posizione dello studentato.
Con una sola frase si era guadagnato il nostro incondizionato affetto.
Si chiamava Ben ed era inglese.

Un ragazzo carino ma non troppo. Quel tipo di bellezza britannica rassicurante e non eccessiva.
Un manager con una carriera ben avviata, ma l'anima dell'adorabile pirla cazzaro.
Quel tipo di persona che prima è l'anima della festa ma poi beve troppo e perde i sensi, restando in un angolo ad emettere suoni e odori d'incerta provenienza.
Ma anche quel tipo di persona in grado di percepire il tuo cattivo umore prima degli altri, e fare di tutto per strapparti un sorriso.

Come dite? Non esiste uno così?
Evidentemente non avete mai incontrato Ben.
Una figura mitologica: metà John Belushi e metà Ricky Cunningham.
Ben era una versione squisitamente britannica dei Gremlins: se gli davi da bere dopo la mezzanotte si trasformava, da perfetto bravo ragazzo, in incontrollabile festaiolo distruttivo. Da morbido orsetto con gli occhi buoni ad essere viscido e a tratti rivoltante.

Non potevamo lasciarcelo sfuggire! E fu per questo motivo che passammo le ore successive a dargli la caccia tra un party di facoltà e l'altro. Fino a quando, al quarto incontro "casuale", non si arrese agli evidenti segni del destino e non scelse, più o meno liberamente, di diventare nostro amico.

Il nostro Erasmus non sarebbe più stato lo stesso.

Continua...

martedì 10 aprile 2012

17. Di popoli superiori, ottime scuse e saudade

Uno degli aspetti più interessanti che caratterizzano l'Erasmus consiste nella possibilità di confrontarsi con altre culture.
Un'esperienza unica di cui far tesoro.

Le differenze culturali, le difficoltà linguistiche e gli alcolici che scorrono a fiumi fanno sì che, durante i vari party, si assista o si partecipi a conversazioni al limite del grottesco.

Un sabato d'ottobre la Kneipe(*) dello studentato s'inventò "L'Oktoberfest in ritardo". Il locale era stata addobbato per l'occasione con festoni bianco-azzurri (i colori della Baviera) e riempito con centinaia di ragazzi a vari stadi di ubriacatura. Dall'avanzato, al molto avanzato, all'avanzatissimo.
Quella, non a caso, fu la sera in cui Anna, la veneziana, coniò l'evocativa espressione: "depravazione alcolica".

Fu proprio durante quella serata celebrativa che ebbi l'onore di incontrare il ragazzo più antipatico dello studentato. O meglio del quartiere, della città, della regione, della nazione, del continente, del pianeta, della galassia. Anzi no, dell'universo tutto.
"Da dove vieni?", mi chiese l'infido.
"Sono italiana, di Torino. E tu?", gli risposi ignara della discussione senza senso in cui stavo andando a cacciarmi.
"Sono iraniano. E' davvero curioso che tu sia italiana. Io mi sono sempre chiesto una cosa sugli italiani."
"Sul serio? Chiedi pure. Vuoi sapere gli ingredienti originali della vera pizza margherita?"
"No."
"Che differenza c'è tra un mandolino e una chitarra?"
"No."
"Non vorrai mica farmi qualche domanda su Berlusconi? Ti prego no, non infierire. Non sarebbe meglio disquisire sulla pizza?"
"No. Volevo semplicemente sapere: perché in Italia parlate italiano?"
"In che senso?"
"Perché non parlate latino?"
"Aaaah. Non sono un'esperta. La nascita della lingua italiana è un processo che è durato secoli. Lingua vulgata....bla bla bla...Dante...bla bla bla...Manzoni...bla bla bla", mi aggrappai ai miei ricordi liceali nel disperato tentativo di non fare la figura della capra e nella convinzione che una domanda tanto originale meritasse, quanto meno, una risposta decente.
"Mi dispiace non poter essere più specifica, ma le mie conoscenze sull'argomento sono molto limitate."
"Voi dovreste parlare latino. Questo dimostra la vostra inferiorità!"
"Scusa?"
"Noi in Persia, parliamo persiano perché siamo un grande popolo orgoglioso del proprio passato"
"???"
"Voi italiani siete senza orgoglio! Avete abbandonato il latino e ve ne dovreste vergognare. Noi persiani siamo superiori!"
L'assurdo dibattito non si arenò di fronte all'evidente folle ottusità del mio interlocutore ma andò avanti ad oltranza e, abbandonati ben presto i propositi di uno scambio costruttivo e razionale, esplose in coloriti insulti detti in tedesco, inglese, persiano ed italiano. In latino no, peccato!
Esasperata, mi allontanai dall'iraniano malefico, andando alla ricerca di un oggetto contundente con cui porre fine alla sua inutile vita. E di una vanga con cui approntare una fossa, dove occultare i di lui odiosi resti.

Con lo sguardo iniettato di sangue, la bava alla bocca e la mente piena di propositi criminali, venni braccata da Simone.
"Ciao Pancrazia!"
"Ciao, hai mica una mazza da baseball?"
"No, perché?"
"Niente, chiedevo così, giusto per sapere"
"Cara Pancrazia, ascolta me dall'alto della mia saggezza, è tutta colpa del Papa(**)!"
"Di chi?"
"Del Papa."
"Che ha fatto?"
"La vedi quella ragazza laggiù?"
"Sì"
"Abbiamo parlato tutta la sera, me la sono rigirata bene bene, forte delle mie irresistibili armi seduttive. Ma..."
"Ma?"
"Ma quando ci ho provato mi ha detto di no."
"Ma non mi dire? Sorpresa ed incredulità mi colgono."
"Già, e sai perché?"
"Perché?"
"Perché è polacca, e dice che queste cose le ragazze cattoliche non le fanno."
Cercando di non scoppiare a ridergli in faccia, esaminai attentamente il bel Simone: un metro e 50, quattro capelli appiccicati sul capoccione, una zeppola da far concorrenza a Paperino, lo sguardo liquido e l'alito fetente, tipici di chi si è fatto 100 metri stile libero in una piscina piena di birra. Come aveva potuto resistere, la giovine dell'est, a una profferta sessuale da questo pezzo d'uomo?
Io, comunque, mi limitai a sorridere ed annuire, glissando sul fatto che, nel frattempo, la pudica cattolica stesse infilando 2 metri di lingua nella bocca del primo ragazzotto nordico di passaggio.

Ripresa la mia ricerca di un'arma con cui abbattere mister NoiSiamoUnPopoloSuperiore, venni nuovamente interrotta. Mi si avvicinò un ragazzo dall'aspetto molto british: carnagione chiara, lentiggini, denti un po' accavallati e un'aria vagamente equina.
"Sei inglese?", mi chiese speranzoso.
"No"
"Però parli inglese", continuò col tono di un bambino petulante.
"Sì, ma non sono inglese."
"Sei sicura?"
"Certo che sono sicura"
"Ma sembri inglese!"
Giuro che non ho i denti accavallati e neanche l'aria equina. Almeno credo. Spero. Insomma, mi pare di no.
"Sono italiana. I-t-a-l-i-a-n-a", dissi distruggendo le sue ultime britanniche illusioni.
"Peccato, avevo tanta voglia di parlare con qualcuno del mio paese", e si allontanò con l'aria mesta, correndo ad abbracciare il suo più caro amico: un boccale di birra. Probabilmente inglese.

Nel frattempo l'iraniano si era dileguato, mettendo in salvo la propria vita e la mia fedina penale.

Quella serata, comunque, non era ancora finita. Tutt'altro. Tante sorprese mi attendevano oltre il confine dello studentato. Confine che Sissi, Eli ed io stavamo per varcare.

Continua...

(*): birreria
(*): all'epoca Papa Giovanni Paolo II, nato Wojtyla.

sabato 7 aprile 2012

16. Il mio regno per un passaporto!

E’ noto che l’amore e, soprattutto, le cotte pseudo adolescenziali facciano perdere la lucidità mentale.
Se poi, come nel mio caso, già di base si sia poco lucidi, è ovvio che sia sufficiente un solo messaggio da parte dell’amato bene perché la catena dell’assurdo si metta in moto.

Felix, che non mi si filava di striscio, che sembrava considerarmi solo una scocciatura, che a malapena si ricordava il mio nome, un giorno, assolutamente a sorpresa, mi invitò a passare un week end assieme. In Polonia.
Nel 2000 per andare in Polonia ci voleva il passaporto. Nel 2000 io il passaporto non ce l’avevo.
In effetti, prima di partire per la mia avventura Erasmus, tutti mi avevo consigliato di farlo. Ma io, imperatrice assoluta della procrastinazione e delle occasioni perdute, avevo rimandato la faccenda fino a quando non era stato troppo tardi per ottenere l’agognato documento.
Niente passaporto. Niente Polonia.
Niente Polonia. Niente appassionato week end insieme al mio Buddy.
Niente week end. Niente fidanzamento.
Niente fidanzamento. Niente matrimonio.
Niente matrimonio. Niente bambini.
Non mi potevo arrendere senza lottare. Lo dovevo fare per Boris, Michael e Florian. I miei adorati figlioli, belli come il loro babbo Felix, e dalla vivace personalità come la loro fascinosa madre, me medesima.

La mia mente, alterata dagli ormoni, lavorò incessantemente tutta la notte alla ricerca di una soluzione.
Come avrei potuto passare il confine?
Nascondendomi nel bagagliaio della macchina? No, rischiavo di spettinarmi.
Scavando un tunnel sotterraneo? No, mi sarei rovinata le unghie.
Paracadutandomi direttamente in terra polacca? No, me la sarei fatta sotto.
Alla fine decisi di provare con un metodo legale, semplice e che non mi avrebbe provocato un attacco di panico.
Mi sarei rivolta alle autorità.

Trascorsi il giorno successivo cercando la sede dell'ambasciata italiana che, ai tempi, era piccola, provvisoria e anonima. Arrivai a due minuti dall'orario di chiusura, arrancai per le scale e raggiunsi l'ingresso. Ero stanca, sudata, stropicciata e nel mio sguardo si intuiva chiaramente un guizzo di follia.
Già in attesa, prima di me, vi era invece un’elegante ed inamidata signora che, dall'alto dei suoi tacchi e della sua messa in piega, mi lanciò un'occhiata di teutonica superiorità.

Venimmo accolte da un carabiniere.
Io, con i miei capelli ricci arruffati, e la signora, con la piega perfetta, esordimmo nel medesimo momento. "Guten Tag!" disse lei, "Buongiorno" salutai io.
Il bel giovane, perché di gran bel pezzo di figliolo si trattava, si voltò verso di me, "Buongiorno, prego si accomodi". E poi, rivolto alla Frau, "Bitte, warten sie einen moment"(*), e le chiuse la porta sul nasino perfetto.

Dopo essermi presa la soddisfazione di essere ricevuta per prima solo grazie ai miei italici natali, avanzai a testa alta per il corridoio, elargendo sorrisi a destra e a manca, e sprizzando ottimismo da tutti i pori.
Un solerte impiegato mi venne immediatamente incontro, "Prego, signorina, mi dica. Cosa possiamo fare per lei?"
"Buongiorno, avrei bisogno di un'informazione. Ci vuole molto per fare il passaporto qui a Berlino?"
"No. Prima la inseriamo nelle liste degli italiani residenti all'estero. Poi le forniamo una nuova carta d'identità e un nuovo passaporto.
Qualche mese dovrebbe essere più che sufficiente."
Mossa dalla disperazione che solo una donna innamorata, o quantomeno fortemente invaghita, può provare, continuai ad insistere.
"Vede, il problema è che il passaporto mi servirebbe in fretta. Non si possono velocizzare un pochino i tempi?"
"Una volta fatta la richiesta, possiamo provare a sollecitare la questura in Italia.
Per quando le serve?"
"'bato", biascicai imbarazzata, improvvisamente consapevole di quanto fosse folle la mia richiesta.
"Eh?"
"'abato", ripetei vergognandomi di me stessa.
"Scusi? Non ho capito"
"Sabato."
"Quattro giorni? Vuole un passaporto in quattro giorni?"

Non mi arresi neanche di fronte all'aria scioccata dell'impiegato. Dovevo continuare a provarci: lo dovevo fare per me e per il futuro padre dei miei figli!
"Non esiste niente che possa fungere da surrogato? Un permessino speciale? Un visto a tempo?"
Un visto a tempo. Ancora non ci posso credere. Chiesi un visto a tempo!
"No, no, no. Niente del genere", fece lui, "ma perché ha tanta fretta?"
A quel punto mi resi conto che la risposta "perché devo andare in Polonia con un gran bel pezzo di ragazzo tedesco che, se gli dico no questa volta, non mi inviterà mai più, non mi sposerà, non fonderà il suo perfetto DNA con il mio, in seguito a numerose, folli e focose notti d'amore" sarebbe stata davvero troppo imbarazzante. Anche per una come me, notoriamente senza vergogna.

Decisi che, se non sarei uscita da quell'ambasciata con un passaporto, almeno me ne sarei andata in grande stile e con la mia dignità ancora intatta. O quasi.
Assumendo un'aria molto professionale e mentendo con tutta la spudoratezza di cui sono capace, dissi:
"Una conferenza. Mi sto laureando in medicina e mi sarebbe piaciuto allargare ulteriormente le mie conoscenze nel campo della neurochirurgia. Il prossimo week end si terrà un convegno di prestigio a Varsavia. Ma, a quanto pare, purtroppo dovrò rinunciarvi." Il fatto che io, in realtà, fossi a 200mila esami dalla laurea, odiassi la neurochirurgia e che il convegno fosse ovviamente una mia sfacciata invenzione erano particolari che, innocentemente, decisi di tacere.
"Mi dispiace. E' un vero peccato. Vorrei tanto esserle d'aiuto, sono mortificato."
Io tagliai corto, perché anche il mio livello di paraculaggine non è infinito, "Grazie lo stesso, arrivederci", e me ne andai quasi di corsa.

Il mio motto è sempre stato: "Se devi spararla, sparala grossa".
Poi, però, raccontala su internet, in modo che tutto il mondo sappia quanto tu sia deficiente.

Continua...

(*): "Prego, aspetti un attimo"

venerdì 6 aprile 2012

15. Il mio Buddy

Qualche mese prima di partire per Berlino, la facoltà di medicina della Freie Universitaet mi assegnò un Buddy, uno studente che mi avrebbe aiutata nell'inserimento.
Il suo nome era Felix e divenne in breve tempo oggetto di smodata curiosità da parte di tutti i miei amici di Torino. Fondamentalmente questi si divisero in due fazioni, da una parte c’erano i ragazzi che lo vedevano come il classico sfigato tedesco con la faccia da rubicondo bambinone e la pancia da birraiolo all’ultimo stadio, e dall’altra le ragazze che invece se lo immaginavano biondocrinito e bello da togliere il fiato. Io, un po’ per non farmi troppe illusioni ed un po’ per il calcolo delle probabilità, puntavo le mie speranze su un ingenuo bavarese, simpatico ma bruttarello. Avete presente Uther dei Simpson? Ecco, lui.
La vita, anche in questo caso, riuscì a sorprendermi.

Il nostro primo incontro avvenne ad una riunione di studenti stranieri e fu memorabile. L’appuntamento era in uno dei tanti locali vicini alla Spree ed io, in ritardo come sempre e priva di vergogna come solo all'estero si può essere, decisi di cenare con un cartone di latte bevuto alla goccia in metropolitana. Non fatemi domande. Non chiedetemi il perché. Non sarei, in tutta onestà, in grado di darvi una risposta. Ciò che so è che questa mia curiosa scelta alimentare attirò l’attenzione di tutto il vagone, e soprattutto la simpatia incondizionata di una vecchina che mi attaccò un teutonico bottone dalle mastodontiche dimensioni, tanto da riuscire a farmi sbagliare fermata.
Scesa dalla metro, decisi di tornare indietro a piedi, ma venni braccata da due ragazzotti il cui scopo della serata era fare proselitismo e, nello specifico, trascinare me medisima a una riunione di parrocchia. Oh poveri sventurati!
Io, per non perdere altro tempo e mettere subito le cose in chiaro, iniziai a parlare latino al contrario e girai la testa di 360°. Loro interpretarono questa mia reazione come un no. E scapparono urlando.
Infine, a un passo dalla meta, mi venne incontro un ragazzo che, abbandonato da un’amica al momento del bisogno, si ritrovava con un biglietto del teatro in più. Biglietto che mi voleva regalare. Regalare.
La tentazione fu grande, ma dare un secondo bidone a Felix nel giro di una settimana mi parve davvero troppo e quindi, a malincuore, rinunciai allo spettacolo ed entrai finalmente nel locale.

I miei compagni di Erasmus erano tutti seduti in un angolo e, in piedi di fronte a loro, un ragazzo stava chiedendo: "Wer ist Pancrazia?"
Io, con la grazia che mi contraddistingue da sempre, cominciai a sbracciarmi, "Sono qua! Sono io!"
Lui si voltò a guardarmi e mi sorrise. Io lo guardai, me ne innamorai e gli buttai le braccia al collo.
Fu l'inizio di una meravigliosa storia d'amore. Io lo adoravo con la devozione di una dodicenne. Lui non mi si filava neanche di pezza. Eravamo fatti l’uno per l’altra.

Felix era bello. Alto, castano, dotato di profondi occhi scuri ed un sorriso abbagliante. Bello come il fidanzato ideale che qualsiasi madre vorrebbe veder portato a casa dalla propria figlia. Bello come l’uomo che qualsiasi donna vorrebbe vedere accanto a sé al risveglio. Insomma, bello bello, in maniera assurda.

Felix era triste. La fidanzata storica, una valchiria bionda, l'aveva mollato, spezzando il suo piccolo cuoricino teutonico. Lui si trovava nella medesima fase in cui mi ero trovata io quasi un anno prima. Frignava, si lamentava e guardava la sua ex con gli occhioni da cucciolo abbandonato. Certo, lo faceva con più dignità di quanta ne avessi dimostra io al suo posto, ma era pur sempre uno spettacolo indegno a cui assistere.

Felix era piacevole quanto un gatto attaccato alle mutande. Amava scegliere un argomento e sviscerarlo fino allo sfinimento dell’interlocutore. Più la conversazione era avulsa dal contesto, e più lui si appassionava. Più l’altro cercava di perdere i sensi sbattendo la testa al muro, e più lui lo metteva all’angolo impedendo qualsiasi via d’uscita.
Ricordo ancora quella festa in cui pontificò per un'ora circa l'inquinamento dei laghi berlinesi, mentre la mia amica Renée passava rapidamente dall’ammirazione smodata per la di lui sfacciata gnocchitudine al desiderio incontenibile di sopprimerlo.

Felix era imbranato. Una volta, per fare il simpatico, mi si acquattò dietro le spalle e cercò di tirarmi giocosamente i capelli. Peccato che io, in quel momento, mi stessi alzando dalla sedia e lui, l’emerito idiota, giocosamente quasi mi fece lo scalpo.

Felix era del tutto privo di senso dell'umorismo. Lo compresi la sera stessa in cui lo conobbi, quando un ragazzo greco, scherzando sulla propria scarsa conoscenza del tedesco, ebbe l'ardire di affermare: "Per fortuna frequento neonatologia, dove i pazienti non parlano"
Tutti risero. Tutti tranne il bel Buddy.
"No, ma che dici? E' importantissima la comunicazione con i genitori. Devi parlare con loro!"
"Sì, lo so. Scherz..."
"I genitori hanno bisogno di essere rassicurati"
"Non lo metto in dubbio. Stavo scherzan..."
"E' importante bla bla bla"
"Stavo solo facendo una battu..."
"Bla bla bla"
"..."
"Bla bla bla"
"..."
"Bla bla bla"
"..."
"Bla bla bla"
"Mavaffanculova"

Nonostante tutto questo, Felix riusciva a smuovermi l’ormone come mai nessuno prima. E la sua sola presenza fu in grado di trasformarmi per mesi in un’adolescente balbettante, arrossente e condannata a rendersi ridicola ad ogni incontro. Insomma, ero tornata alle medie.

Continua...

martedì 3 aprile 2012

14. Die Deutschkurse

Io, dotata dell’autostima di un criceto e facile preda dell’ansia da prestazione, m'iscrissi a due scuole di lingua contemporaneamente: una si trovava tra le villette ed i giardini fioriti, l'altra nella parte turco-proletaria della città.

Per due mesi e mezzo seguii entrambi i corsi ed anche le lezioni all'università. Il tutto grazie ad un orario ad incastro che mi sballottava da una parte all’altra di Berlino, costringendomi a ipercalorici pranzi al volo. Divoravo hamburger grondanti maionese, cipolla e colesterolo. Ingurgitavo mastodontici panini teutonici, imbottiti con gli onnipresenti cetrioli. Cadevo in estasi mangiando l’oleosa pizza salami a Zoologischer Garten. Per fortuna all’epoca ero giovane, con uno stomaco di ferro ed un metabolismo rapidissimo. Se mangiassi così adesso, probabilmente, non vivrei abbastanza a lungo da raccontarlo.

Il primo corso di tedesco consisteva in due lezioni mattutine a settimana. Sei ore in tutto. Sei ore tenute in un bel palazzo da insegnanti totalmente incompetenti. Il programma procedeva con una lentezza esasperante ed io, con il passare del tempo, lo seguii sempre più saltuariamente ma non lo abbandonai mai del tutto, sia perché l’avevo già pagato e neanche poco, sia perché l'umanità che popolava la mia classe era incredibilmente varia ed interessante.
Andare a questi corsi è un po' come andare allo zoo, e visto che ai giardini zoologici io non ci vado per principio, la mia classe di tedesco era il perfetto compromesso tra etica, morbosa curiosità, ed antropologia urbana.

Tra i tanti compagni c'era l’italiano iscritto a veterinaria, a sentir lui avrebbe avuto bisogno solo di un ripasso delle regole di base per migliorare un tedesco già eccellente. Peccato che necessitasse di un tutor anche solo per prendere un caffè alla macchinetta.
"Cosa significa mit Zucker?"
"Con zucchero"
"E ohne Zucker?"
"Senza zucchero"

C’era l’au pair franco-canadese. Dolce, carino ed educato, ma talmente molesto con l’insegnante da riuscire spesso a portarla sull’orlo di una crisi di nervi.
"Ma davvero in tedesco si dice così? Che strano. In francese diciamo diversamente. Ma davvero in tedesco quella cosa è femminile? Ch strano. In francese è maschile. Ma davvero... "
"Taci! Non ce ne frega niente del francese. Questo è un corso di tedesco: t-e-d-e-s-c-o!"

C’era la casalinga statunitense, trascinata dall'altra parte del mondo dal lavoro del marito. Lei soffriva per la nostalgia del proprio paese, della propria famiglia e soprattutto della propria lingua, e soffocava la tristezza cucinando deliziosi muffin per tutti quanti. La sua abilità culinaria aumentò esponenzialmente ad ogni nuova infornata, mentre la sua conoscenza del tedesco non si schiodò mai dalle basi elementari che, nello specifico, consistevano nei giorni della settimana ed i numeri fino al 20.

Ed infine c’era il misterioso pittore cinese, che si espresse a gesti per la durata di tutto il corso e ci mise due mesi per imparare a dire: "Wo ist die Toilette?" Non voglio neanche pensare alle dimensione raggiunte dalla sua vescica nel frattempo.

Durante quelle ore imparai poco o niente, ma mi divertii tantissimo in mezzo a quella colorata gabbia di matti.

Il secondo corso, molto più intenso ed infinitamente più utile, consisteva in 12 ore settimanali, tenute in una scuola elementare sotto la guida di un'insegnante fantastica, che avrebbe potuto far parlare fluentemente tedesco anche ad un chihuahua balbuziente.
Nella classe vi erano musicisti, giunti da varie parti del mondo per migliorare la propria formazione, ed un folto gruppo di donne turche, che avevano lasciato il proprio paese ed il proprio lavoro per seguire i mariti in terra germanica.

C’era il bassista francese, molesto quanto il ragazzo canadese e con l'aggravante di essere meno simpatico e piacevole di un attacco di colite.

C’era la chitarrista ucraina, che aveva a cuore solo tre cose: suonare, sposare il grande amore che l’attendeva in patria, e trovarmi un fidanzato.
"Ma davvero non hai un ragazzo?"
"No"
"E come mai?"
"Perché no"
"Eppure non sei brutta"
"Grazie, ma il ragazzo nen ce l'ho lo stesso"
"Non ti piaceranno mica le donne?"
"No"
"Guarda che per me non è un problema"
"Neanche per me, ma per ora preferisco gli uomini"
"Se vuoi te lo trovo io un fidanzato"
"No, grazie"
"Ho tanti amici. E tante amiche. Se preferisci"
"No, grazie, faccio da sola. Se poi cambio idea ti chiamo, ok?"

E poi c’era Aida, sempre con addosso il velo ed un vestito nero lungo fino ai piedi. Di primo acchito ricordava le arcaiche donne di paese che si vedono nelle foto in bianco e nero dei nonni. Ma appena apriva bocca si rivelava essere una mente arguta e moderna.
Aida fu per me la porta che si aprì verso una cultura sconosciuta, il riflettore che illuminò senza pietà la schiavitù dei pregiudizi e delle fallaci prime impressioni. Schiavitù inevitabile nonostante gli anni di educazione aperta e politicamente corretta. Schiavitù da cui ci si libera solo dopo averne preso doloramente coscienza.

Durante quei mesi intensi venni a contatto con culture diverse, conobbi persone straordinarie, compresi a fondo il significato della parola “privilegiata” e, con mio sommo stupore, iniziai anche a parlare tedesco.

Quando i corsi finirono potei dedicare tutte le mie energie alle ore di lezione all’università e, soprattutto, ai gruppi di studio pomeridiani che mi erano stati appositamente posticipati. Destino volle che m'imbattessi nuovamente nell’altra italiana con le lacune linguistiche. Ella, la simpaticona poliglotta con l'ego ipertrofico, nel frattempo non aveva fatto grandi passi avanti con il tedesco, tutt'altro.
Me la ritrovai dunque attaccata come una cozza allo scoglio, una cozza spaventata che non capiva nulla di ciò che le dicevano gli altri, e che necessitava di una continua traduzione simultanea da parte mia.

Ovviamente, a quel punto, l'ego smisurato venne a me. Ecchecavolo.

Continua...

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