giovedì 31 maggio 2012

26. Poche somiglianze e molte differenze

L'inizio di ogni giornata mi veniva annunciato dalla sveglia del mio vecchio cellulare, potente quanto la sirena di una nave ed irritante quanto l'antifurto di un'auto. Dopo averla lasciata suonare più volte, mi decidevo a sgusciare da sotto il piumone mossa a pietà dalle suppliche della mia iberica vicina Lola: "Pancraziaaaaaaaaaaa bitteeeeeeeeeee"

Avvolta in un sexy pigiamone da Teletubbies strisciavo ad occhi chiusi fino alla cucina e mettevo la moca sul fuoco. Il profumato caffè italiano si univa biblicamente con sublimi biscotti germanici, sulla cui confezione faceva bella mostra di sé l'annuncio "+20% butter!". C'è poco da fare, checché se ne dica, i tedeschi conoscono la caducità della vita e la necessità di godersela fino in fondo.

In perenne ritardo, correvo a prendere l'autobus per dare inizio alla transumanza che mi avrebbe portato dallo studentato all'ospedale. Più di un'ora tra bus, U-bahn e poi ancora bus. Mezzi pubblici puntualissimi, a differenza di quelli italiani. Mezzi pubblici pieni di adolescenti brufolosi, rumorosi e molesti, proprio come quelli italiani. Perché i ragazzini sono una iattura a qualunque latitudine li si incontri.

Finalmente giunta alla clinica universitaria Benjamin Franklin mi tuffavo nell' Humanmedizin, scoprendo ogni giorno nuove differenze tra la facoltà berlinese e quella sabauda.
Dal punto di vista prettamente didattico, Torino non ha niente da invidiare a Berlino, anzi. Ma per quanto riguarda la qualità della vita degli studenti, in Germania stanno su un altro pianeta. Un pianeta più evoluto e civile.

A Berlino molti studenti di medicina abbelliscono il proprio camice con foulard e spillette. Non parlo di qualcosa di eccessivo o ridicolo ma solo di un tocco di gradevole colore, adatto alla giovane età ma mai in contrasto con la serietà richiesta dal luogo e dal ruolo.
A Torino, se fai una cosa del genere, nella migliore delle ipotesi uno specializzando ti cazzia, nella peggiore il primario stesso ti umilia davanti al maggior numero di persone possibile. Perché è risaputo che l'esposizione al pubblico ludibrio è sempre un buon modo per affermare il proprio potere e far godere il proprio ego più sadico.  E così, in giro per i corridoi delle Molinette, s'incontrano ventenni imberbi che giocano a fare i grandi, esibendo orgogliosi tristi cravatte sotto i camici. Che poi se c'è un indumento antigienico è proprio la cravatta! Oppure giovani ragazze che dimostrano almeno 20 anni di più della loro età.
Nel nostro paese troppo spesso ci si fa ingannare dalla forma e si dimentica il contenuto. Mentre i tedeschi, per altri versi formalissimi, in alcuni casi sanno dimostrarsi saggi, lungimiranti e niente affatto ottusi, badando molto più al contenuto che alla forma. Solo in alcuni casi, però.

A Berlino gli studenti hanno a disposizione un guardaroba con tanto di gentile e paciosa guardarobiera. Non sto scherzando. C'è una signora con il suo grembiulino che ti aspetta dietro ad un bancone, per appenderti la giacchetta o prendere in custodia la tua borsa. Come in discoteca. Anzi meglio, come all'Opera. Che meravigliosa sciccheria, che incomparabile comodità.
A Torino, se sei fortunato puoi depositare le tue cose in un armadietto ma, il più delle volte, devi abbandonare borse e giacconi sulle panche degli spogliatoi di reparto. Scegliendo di fare speranzoso affidamento sull'onestà degli altri o d'imbottirti il camice con portafogli, cellulare, chiavi, e chi più ne ha più ne metta. Con un risultato finale scomodo quanto ridicolo.

A Berlino gli studenti spesso mangiano a lezione davanti ai professori. Non parlo di veri e propri pasti, ovviamente, ma di snack e bibite necessari per non crollare dopo aver corso da una lezione all'altra e da un reparto all'altro, senza aver avuto il tempo di andare in mensa.
A Torino mi è capitato di assistere ad una scenata per una bottiglietta d'acqua:
"Le sembra educato bere mentre io spiego?"
"Ma avevo sete"
"E allora? Le sembra il caso???"
"Ma ci sono 30 gradi in quest'aula"
"Voi giovani non sapete cos'è il rispetto!"

A Berlino una studentessa veniva a lezione con il bimbo nel passeggino e nessuno, tranne me, sembrava trovare la cosa degna di nota. Lei era iscritta a medicina ma aveva anche un figlio da allattare, quindi lo portava con sé e, le rare volte che il piccolo cominciava a frignare, usciva dall'aula rapida, senza disturbare nessuno.
A Torino: la gravidanza durante il corso di laurea? Fantascienza.
Durante la specializzazione? Mal tollerata.
Durante i primi anni di lavoro? Ma scherziamo?

Sballottata in questo mondo così diverso e migliore, rientravo allo studentato con l'ansia al pensiero di dover tornare un giorno alla base sabauda.
Per fortuna ogni sera, prima di cena, a tirarmi su ci pensava Fumiki che, sorseggiando un tè fumante, cercava di farmi ragionare, vedere le cose obiettivamente e regalarmi un poco di serenità.
Fumiki chi?
Ora ve lo spiego.

Continua...

sabato 26 maggio 2012

25. Fussball


Forse non ci avete mai fatto caso ma ogni tanto capita che, in occasione delle partite di calcio della nazionale o delle squadre di club italiane all’estero, il telecronista sottolinei la presenza di Erasmus sugli spalti. Ciò si verifica soprattutto nei paesi più lontani ed isolati del continente, dove sono pochissimi i tifosi disposti ad affrontare la trasferta. Gli Erasmus fanno colore e permettono al giornalista di turno di distrarre l’attenzione dagli spalti tristemente vuoti.

E secondo voi, io potevo perdermi un’esperienza così?
Onestamente non ricordo quale fosse il motivo che mi spinse ad andare a prendere freddo all’Olympiastadion di Berlino. E, soprattutto, quale fosse il motivo che spinse un’orgogliosa gobba come me a congelarsi il sederino sui seggiolini di plastica per vedere l’Inter.
Vi è un’unica spiegazione valida: io ero Erasmus nell’animo. E, se sei un Erasmus, parti dal presupposto che ogni lasciata sia persa, ed ogni scusa sia buona per fare un’esperienza da raccontare al ritorno in patria.
Scaltra messa in scena in ambasciata? Ce l’avevo.
Litigio con iraniano? Ce l’avevo.
Partita di calcio in stadio tedesco? Mi mancava. Dovevo rimediare.

Che poi, in effetti, andare a vedere una partita di calcio in Germania ha un suo senso, un suo significato. Se esiste un paese europeo dove la passione per il pallone è persino più virale che in Italia, questo è proprio la Germania. Un paese con la più alta concentrazione di scuole calcio. Un paese dove l’amore per questo sport raggiunge gli stessi livelli d’imbarbarimento e rimbecillimento che raggiunge da noi.
Non ci credete? Vi faccio un esempio su tutti: il mio Buddy, Felix!
Arieccolo. Sempre lui. Bello bello in una maniera assurda.
Felix, tra le altre cose, aveva una passione malata per il calcio.
A lezione, ogni lunedì, me lo vedevo venire incontro tutto sorrisi ed io mi cullavo nell’illusione: “Ecco, lo sapevo, ha finalmente capito di essere follemente innamorato di me!”
E invece no.
Lui, ogni maledetto lunedì, mi metteva sotto il naso il quotidiano con i risultati di tutti i campionati europei, ritenendo suo dovere di Buddy aggiornarmi circa l’andamento della nostra serie A.
Sordo al mio disinteresse, alle mie battute sarcastiche, ai miei velati insulti, Felix si ostinò a portarmi ogni settimana il giornale zompettando e scodinzolando orgoglioso. Come il più fedele ed esuberante dei cocker. Forse, a pensarci adesso, avrei dovuto ringraziarlo grattandogli il capino od offrendogli dei croccantini. Chissà che il mio destino non sarebbe stato diverso ed il nostro rapporto non sarebbe finalmente sbocciato in tutte le sue gloriose potenzialità.
Ma non vi ho ancora detto tutto, il bel Felix se ne andava in giro con la foto di Voeller, all’epoca allenatore della nazionale germanica, appiccicata sul retro del cellulare. Ebbene sì, io ero folle d’amore per un tizio col santino di Voeller attaccato sul telefono.
Non guardatemi così. Del resto, chi meglio di me potrebbe apprezzare la pazzia e le stranezze altrui? Chi?

Ma torniamo finalmente al giorno del ritorno in Italia dei miei genitori. Dopo averli lasciati all’aeroporto, mi precipitai verso lo stadio. Secondo quanto stabilito, i miei amici mi avrebbero aspettato alla fermata della metro per darmi il biglietto ed entrare tutti assieme.

Arrivai con un quarto d’ora di anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento. Non c’era nessuno, ma ovviamente non me ne preoccupai, mi misi seduta e attesi. Attesi. Attesi. Attesi.
Nel frattempo mi passarono davanti centinaia di energumeni tedeschi il cui aspetto variava dal “poco rassicurante”, passando per il genere “ho rubato la pensione alla mia povera nonna”, per finire con il “sono appena scappato dal braccio della morte”.
Io cercai di mantenere la calma, mi mimetizzai con la panchina e, pregando ogni dio conosciuto, feci voto di rinuncia ai piaceri della carne in cambio della mia salvezza.

Intanto, l’orario dell’appuntamento giunse e passò.
E finalmente qualche dubbio iniziò a cogliermi. Strisciando lungo le pareti raggiunsi la cartina della metro. E ciò che era stato solo un dubbio divenne una certezza.
C’erano due fermate dello stadio. Io, ovviamente, ero scesa a quella sbagliata.

Infilai la mano in borsa, tirai fuori il cellulare. E scoprii che era spento. Completamente scarico. I miei amichetti avevano cercato infruttuosamente di mettersi in contatto con me, insultandomi in vari dialetti, lingue ed inflessioni.
Fui costretta ad avventurarmi nuovamente sulla metro, ormai piena di simpatici hooligan e gioiosi naziskin. Agitai i miei magici ricci biondi, feci lo sguardo da cattiva (che mi riesce benissimo), e miracolosamente portai la mia pellaccia a casa, o meglio allo stadio.

Alla fermata giusta trovai i miei pazienti amici ad aspettarmi.  Molto arrabbiati. A poco valsero scuse e spiegazioni, del resto quando si ha appiccicata addosso l’infamia del ritardo cronico, non ci sono scuse che tengano.

Comunque, riuscimmo ad entrare allo stadio in orario e a vederci la partita.
Il match fu terribilmente noioso. Il risultato finale un deludente 0 a 0. Io, colta da un attacco di patriottismo ingiustificato, tifai persino un po’ per i nerazzurri. Ma solo un po’, non esageriamo.

Ma il ricordo migliore di tutta l’esperienza rimane l’ipercalorico panino con wurstel comprato durante l’intervallo.  Come fanno i panini “dallo Zozzonen” in Germania, non li fanno in nessun altro luogo.

lunedì 21 maggio 2012

24. I coniugi Cole a Berlino

Poco prima della mia partenza per Berlino, mammaCole se ne saltò su con una proposta indecente: "E se io e papà venissimo con te in Germania? Solo i primi giorni, giusto per aiutarti. Non è un’idea fantastica? Dai dai daiii daiiii"
Mentre papàCole tentava di sedare la chioccia isterica con un fucile caricato a pallettoni di buon senso, io mi limitai a risponderle con pacatezza: "Sei impazzita? Ma ripigliati! Piuttosto che farmi accompagnare da voi due, mi faccio tutta la strada ginocchioni." Perché, quando voglio, so essere estremamente sensibile ed attenta ai sentimenti altrui. Quando voglio, appunto.
Comunque, per chetare la materna follia da ansia per imminente distacco, la parte sana della famiglia programmò una visita genitoriale in terra germanica a novembre.
E Novembre fu.

Non erano passati neanche due mesi dall’ultimo incontro, ma facemmo fatica a riconoscerci tra noi. I miei genitori, in mezzo ai tedeschi, mi sembrarono piccoletti e completamente fuori contesto. Io, astutamente mimetizzata con la popolazione indigena, sembrai loro una delle tante dinoccolate macchie di colore mischiato a caso.

Superati lo smarrimento iniziale e i saluti caciaroni seguenti, scoprii che Berlino aveva accolto i miei genitori con lo stesso entusiasmo con cui aveva accolto me. Con lo smarrimento dei bagagli. Che curioso gioco del destino. Che simpatica coincidenza. Che immensa sfiga.
Fummo a lungo palleggiati tra l'ufficio della Swissair ed il deposito degli oggetti smarriti. Palleggiati tra una ragazzetta svizzera, simpatica come una forma di groviera andata a male, ed una coppia di operai tedeschi, decisamente più gentili ma altrettanto disinformati.
Dopo ore d’infruttuosi tentativi, con i piedi gonfi e l'umore a terra, quando ormai avevamo perso ogni speranza oltre che percorso mille km avanti e indietro per l'aeroporto, riuscimmo miracolosamente a rientrare in possesso delle valigie. Noi tre e gli operai tedeschi ci abbracciammo commossi. L'impiegata svizzera si chiuse a doppia mandata nel proprio ufficio, dove rimase a ripetere per tutta la notte l’ossessivo mantra: "Non è stata colpa mia, non è stata colpa della Swissair, non è stata colpa mia, non è stata colpa della Swissair, non è stata colpa mia, non è stata colpa della Swissair, non è stata colpa mia, non è stata colpa della Swissair". Narrano le cronache aeroportuali che, per tirarla fuori, si rese necessario l’intervento dell’ambasciatore svizzero, armato di tanta pazienza e una tavoletta di cioccolato nero extrafondente da usare come esca.

Per i tre giorni successivi, vestendo i panni della guida turistica, scorrazzai i miei genitori per tutta la città. Il tempo era poco e le cose da vedere tante.
Iniziammo con il Mauermuseum, dove potemmo osservare i numerosi e sorprendenti reperti che testimoniano i tentativi di fuga attraverso il muro. Reperti che raccontano storie drammatiche, commoventi e, a volte, quasi comiche. Dimostrazioni tangibili che la disperazione e la voglia di libertà possono rendere qualsiasi essere umano coraggioso, creativo e anche un po’ folle.

Proseguimmo con la Nuova Sinagoga che, oltre ad essere il più grande luogo di culto ebraico in terra tedesca, è un edificio di una bellezza disarmante. Uno di quelli che ti fermi ad osservare per un attimo, anche la milionesima volta che ci passi davanti. Uno di quelli che possono rendere speciale una strada, un quartiere e anche una giornata.

Continuammo con una suggestiva vista della città dalla cupola del Duomo, con gli angeli pasciuti che ci guardavano dall’alto e la Fernseheturm che si metteva in mostra in tutto il suo svettante, moderno e discutibile fascino.

Andammo alla ricerca del nostro personale “Cielo sopra Berlino” arrampicandoci per la mitica Siegessaule che, con i suoi 285 gradini, mise a dura prova la resistenza psicofisica di papàCole. Ma ci regalò anche il privilegio del sogno e la leggerezza del volo.


Infine, ci perdemmo tra le mille sale del Pergamon-Museum dove, tra le imponenti opere monumentali famose in tutto il mondo, viene custodita anche la riproduzione dell'uomo dei miei sogni: Attalo. Riproduzione che io rimasi a fissare in estasi mistica fino a quando non riuscirono a trascinarmi via.
Narrano le cronache museali che, per riuscire nell’impresa, si rese necessario l’intervento del mio professore di storia dell’arte del liceo, fatto venire apposta dall’Italia, armato di una scatola di gianduiotti usata come esca.

Dopo queste giornate di bellezza e coccole parentali, riportai i miei genitori all’aeroporto, feci loro “ciao ciao” con la manina e mi fiondai a prendere la metropolitana. Quella sera stessa mi attendeva un appuntamento imperdibile per ogni italico Erasmus.

Continua...

(Le foto, purtroppo non sono mie, ma trovate in giro per la rete.)

domenica 13 maggio 2012

23. Die Erasmus Studentin

Dopo aver esaminato e dileggiato con tanto impegno la popolazione tedesca tutta, per dovere di giustizia e sana autocritica, mi toccherà parlare anche delle tipiche studentesse Erasmus a Berlino. Delle tipiche studentesse Erasmus italiane a Berlino. Insomma, di me.

Vivere all'estero mi cambiò, non solo nello spirito, ma anche e soprattutto nell'aspetto.

La prima vittima della mia smania di rinnovamento fu la capigliatura che, oltre a subire un ulteriore ed inesorabile mutamento verso il biondo VorreiEssereSvedese, venne brutalmente ridotta di volume e lunghezza, durante una serata di solitario e sforbiciante delirio.
In quel periodo i miei capelli erano di media lunghezza. E chi, come me, s'intende un poco di ricci sa bene che la media lunghezza è un inferno, una tortura, una condanna al look da fungo atomico.
Quando tenevo i capelli sciolti avevo un capoccione ingestibile. Quando tenevo i capelli legati sembravo una giovane signorina Rottermeier.
Dovevo prendere provvedimenti.

L'idea di rivolgermi ad un parrucchiere tedesco non mi sfiorò neanche per un momento ma preferì fare tutto da sola. Munita di un paio di cesoie d'incerta provenienza mi piazzai davanti allo specchio e tagliai, tagliai, tagliai. Tagliai fino a quando la mia sete d'ordine non venne placata. Tagliai fino a quando il pavimento non fu ricoperto da un morbido tappetino di crine umano.
Il risultato estetico, per fortuna, fu al di là delle mie più rosee aspettative.
Da un insano gesto, che avrebbe potuto costringermi a girare con un sacchetto in testa per almeno un paio di mesi, scaturì invece un taglio molto carino, che avrei conservato per parecchio tempo a venire.
A questo successo contribuirono, in egual misura, un innegabile talento naturale e una folta capigliatura riccia, in grado di occultare più facilmente eventuali errori o asimmetrie.
Oltre che un gran culo. Ça va sans dire.

Fu molto più graduale, ma altrettanto devastante, l'effetto che l'Erasmus ebbe sul mio guardaroba.
I tedeschi hanno tante qualità, ma non sono certo famosi per il loro buon gusto nel vestire. Il problema, secondo me, sta nell'approccio troppo disinvolto che hanno con l'abbinamento di capi e colori differenti. Approccio che può diventare contagioso come il raffreddore.
Mi bastarono alcune settimane in Germania e gli accostamenti, che a Torino avrei definito brutti e di cattivo gusto, divennero ai miei stessi occhi mettibili, interessanti o addirittura "cool".
Questo muovermi al di fuori degli schemi e dei percorsi conosciuti mi diede un senso di vertigine e libertà. Una sensazione tanto piacevole da portarmela dietro anche al ritorno in Italia.
Ci ho messo anni per riacquistare il senso del decoro. Ammettendo che io l'abbia mai riacquistato del tutto.

Ma se con capelli ed abiti ci vuole poco, se ci si pente, a ritornare sui propri passi, ci sono alcune scelte definitive che lasciano segni indelebili.
Io, ovviamente, feci anche una di quelle scelte.
Un sabato pomeriggio ci ritrovammo in tre in uno storico negozietto del centro.
Lui trafficava con i suoi attrezzi, bofonchiando nel proprio idioma.
Io, sdraiata sul lettino, mi guardavo attorno, preoccupata che fosse tutto realmente sterilizzato e monouso.
Eli, seduta accanto a me, si occupava del supporto morale. "Una mia amica l'ha fatto in un tendone dietro ad una stalla, ma è ancora viva", mi disse la mia comare romana.
"Sticaz...ouch!", non ebbi neanche il tempo di risponderle che avevo già il mio nuovo piercing all'ombelico.

Ero una studentessa Erasmus con una nuova pettinatura, un nuovo guardaroba ed un piercing. Ero un cliché vivente.

Talmente mimetizzata ed integrata che i miei, quando vennero in visita a Berlino, fecero fatica a riconoscermi.

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mercoledì 9 maggio 2012

22. Die Kinder

Prima di partire per la Germania mi avevano presentato Berlino come la città dei single e dei gay. Mi trovai, invece, nel regno dei ragazzini dalle lingue rotanti e dei genitori con pargoli al seguito.
Imparai ben presto che i tedeschi respirano molto bene dal naso e sono affetti da un esibizionismo cronico: non esiste panchina, autobus, tram o metropolitana senza una coppia intenta in una funambolica pomiciata pubblica. E più pubblico c'è, meglio è.
Ma ad attirare la mia attenzione furono soprattutto i bambini.
Fin da piccoli i germanici sono diversi da noi. E fanno paura.

I bimbi tedeschi sono fatti di gomma. Indistruttibili nel corpo e nello spirito.
Li ho visti superare la barriera del suono, pedalando come pazzi lungo discese suicide.
Li ho visti appendersi ai sostegni della metropolitana, dondolandosi come glabri scimpanzé.
Li ho visti tentare di spiccare il volo, lanciandosi da ragguardevoli altezze.
Ho visto fare tutto ciò sotto l'occhio vigile di genitori dotati dell'autocontrollo di un monaco buddista, che si limitavano ad ammonirli con un pacato: "Così finirai col farti male, tesoro". Mentre io trattenevo a stento la madre ansiosa, ossessiva e scassaballe che alberga in ogni donna italiana, e che avrebbe voluto urlare: "OHMARONNAAAA!!!ATTENTO, CHE TI AMMAZZI!!!"
Puntualmente i piccoli kamikaze si schiantavano a terra e, trattenendo stoicamente le lacrime, sopportavano a testa alta e senza batter ciglio il sintetico rimbrotto materno: "Te l'avevo detto."

I bimbi tedeschi hanno lo stomaco foderato d'amianto. Mangiano qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, in qualsiasi condizione.
Li ho visti con il biberon in una mano ed un wurstel nell'altra.
Li ho visti ciucciare avidi l'olio da patatine strafritte.
Li ho visti divorare cheesburger con la rapidità di piraña bulimici.
Li ho sentiti emettere dolci ruttini degni di un camionista bulgaro.
Queste piccole idrovore, alimentate seguendo i dettami di un nutrizionista pazzo, invece di essere ricoverate per una bella lavanda gastrica, crescono grandi e forti. In grado di digerire anche la peperonata alle 6 del mattino.

I bimbi tedeschi non esistono. Quegli angeli biondi in giro nei parchi o a passeggio nelle loro carrozzine non sono bambini, ma adulti molto molto molto bassi. Io l'ho sospettato per mesi e ne ho avuto la certezza una mattina in metropolitana. Quel giorno mi trovai seduta di fronte a due esemplari dall' età apparente di 6 e 4 anni ed assistetti allibita ad una conversazione degna di due linguisti in erba.

Il Piccolo: "T-i-e-rgarten. Che significa?"
Il Grande: "E' una parola composta: Tier-Garten. Giardino degli animali."
IP: "Ma allora Zoologischer Garten?"
IG: "La stessa cosa: giardino degli animali"
IP: "Ma com'è possibile? Sono due parole diverse."
IG: "Tiergarten è tedesco, mentre Zoologischer Garten deriva dal greco."
IP: "Capito."



Non so quando, non so come, ma è ovvio che prima o poi i tedeschi riproveranno a conquistare il mondo e stavolta ci riusciranno.
Paura, eh?
Continua...

martedì 8 maggio 2012

21. Die Frauen

Ho preso la mia nuova carriera di osservatrice, specializzata in fauna germanica, talmente seriamente da decidere di scrivere una breve tesina anche sull’altra parte del cielo teutonico: le donne. Die Frauen.

Del loro ruolo nel rito dell’accoppiamento ho già detto in precedenza, sottolineandone l’intrinseca spregiudicatezza e la capacità d’iniziativa, caratteristiche sviluppatesi nei millenni un po’ per attitudine e un po’ per forza della disperazione.
Ma se una tedesca media è disinvolta e disinibita, una tedesca media alticcia è molesta ai limiti della denuncia. Queste bellezze nordiche spesso vivono ancora nel mito dell’uomo latino e, soprattutto se ubriache, si avventano sugli italiani appena carini con entusiasmo ed ingordigia. I nostri compatrioti che, si sa, sono esterofili e amano le biondone dalla coscia lunga, all’inizio godono come ricci in calore ma poi si annoiano o, peggio, spaventano. Evidentemente la maggior parte di loro perde del tutto il gusto della “caccia” quando si trova a dover vestire i panni del leprotto spaurito invece che quelli del bracconiere ingrifato.
Ancora me lo ricordo il bel Marco mentre si nascondeva dietro Gra’ per sfuggire all’ennesima tedesca coi bollori. “Ti prego, fai finta di essere la mia ragazza, ti prego!” “Ma non le puoi semplicemente dire di no?” “Non mi ascolta! Quella depravata vuole solo approfittare del mio corpo. Prima ha cercato di aprirmi la zip a tradimento!”

Ma lasciamo perdere questo spinoso argomento che, com’è ovvio, ho vissuto solo da spettatrice. E concentriamoci invece sul mio giudizio spudorato, sfacciato e pregiudizievole circa l’aspetto delle donne tedesche.
Secondo i miei studi mi permetto di dividerle in tre gruppi distinti.
Da una parte ci sono quelle “Belle, belle in maniera assurda”, dalla parte opposta quelle “brutte ma tanto brutte da non poterci credere”, in mezzo tutte le altre che io, simpatica come una carogna, amo chiamare “Le facce da patata”.

Le “Belle, belle in maniera assurda” hanno occhi da cerbiatta, nasini all’insù, zigomi alti e labbra perfettamente disegnate. Ed oltre ad essere belle, almeno fino ai 20-25 anni, esibiscono anche una passione per la moda, passione che spesso ignora le rigide regole che guidano noi italiani, ma che comunque dimostra una certa fantasia, simpatica frivolezza e fascinosa femminilità. Passione che, senza motivazione logica alcuna, scompare dopo i 30 anni, quando la maggior parte di queste Frauen inizia l’inesorabile mutazione da modella mozzafiato in valchiriona baffomunita, priva di grazia e di un paio di scarpe degne di questo nome. Alla mancanza di buon gusto, si affiancano pesantezza nei modi e la perdita del numero della propria estetista.
Per quale motivo ciò avvenga non lo so, ma ho sviluppato due teorie al riguardo.
La prima, detta della (Ri)Assimilazione, riconosce la causa di questo mutamento nella società tedesca, notoriamente priva di buon gusto nell’abbigliamento e negli accessori, rigida e poco amante dei fronzoli. Società che riassorbe o meglio riassimila queste fuoriuscite, facendole rientrare nei ranghi, facendole assomigliare alle loro madri e alle nonne. Personcine adorabili, simpatiche ma affascinanti come dei cespi d’insalata.
La seconda teoria, detta quella della Giustizia Divina, vede nel gran cuore della natura benigna la volontà di riportare a terra queste dee, in modo da dare un’occasione a tutte noi altre, in modo da ridonarci il sorriso e farci smettere di rosicare. Del resto la Giustizia è femmina e certe cose le capisce.

Le “Brutte ma tanto brutte da non poterci credere” non sono brutte come possiamo esserle noi italiane o le altre cittadine di questo mondo. No, nient’affatto. Le brutte tedesche raggiungono livelli impensabili. Livelli che, a onor del vero, hanno poco a che fare con lineamenti sgradevoli o fisici lontani dalla perfezione, ma sembrano il frutto di una mirata ricerca del peggioramento del proprio aspetto.
Il problema di questa piccola percentuale di donne non è certo il braccino corto di Madre Natura ma la loro scientifica precisione nell’occultare i piccoli doni ricevuti e, non contente, nell’esibire orgogliose una sciatteria quasi patologica.
E ve lo dice una che non ama particolarmente truccarsi o camminare altera su tacchi mozzafiato. Ma a tutto c’è un limite! Durante il mio Erasmus ho visto cose che voi umani. Ho visto ragazze passeggiare in mezzo alla neve, indossando sandaloni e calzettoni di lana. Ho visto donne esibire certi baffi che avrebbero fatto morire d’invidia persino il mitico Francesco Giuseppe. Ho visto Frauen abbigliarsi come fosse esploso loro addosso il guardaroba di un'ottantenne daltonica.

E infine ci sono quelle che stanno in mezzo, esibendo vari livelli di bellezza. Quelle che, c’è poco da fare, se le si guarda fisse rivelano immediatamente le proprie teutoniche origini. Quelle che riconoscereste dappertutto e in mezzo a migliaia di altre nordeuropee. Quelle che hanno la pelle chiara, gli occhi tondi, le guance paffute ed un morbido ovale. Quelle che, a guardarle bene, nessuno può negare che assomiglino incredibilmente a una patata. “Le facce da patata”, appunto.
E no, non lo dico perché sono una brutta italiana invidiosa. Non sono io ad essere invidiosa, sono loro a ricordare dei tuberi.
E che male c’è? Gli inglesi, anche quelli bellocci, hanno sempre un che di equino. Le tedesche, soprattutto se paffutelle, hanno un che di tuberico/tuberale/tuberante(?).
Probabilmente anche noi italiani, ad osservarci bene, ricordiamo qualche animale o vegetale ma, semplicemente, nessuno se n’è ancora accorto. Prima o poi accadrà. Magari qualche studente Erasmus straniero ci scriverà sopra un post sul proprio blog. E noi, a quel punto, dovremmo farci i conti con autoironia ed eleganza. Suvvia, i problemi sono altri.

Continua...

giovedì 3 maggio 2012

20. Homo germanicus

Vivere la vera vita notturna berlinese mise tutti noi, e soprattutto tutte noi, di fronte ad una delle esperienze etologicamente più interessanti che un essere umano possa affrontare. Ci costrinse ad entrare in relazione, più o meno intima, con i tedeschi. I tedeschi veri. Non le macchiette alla Sturmtruppen o quegli strani figuri che si aggirano in gruppo per la riviera romagnola.
I tedeschi originali. Gli indigeni nella loro terra d'origine, nel loro ambiente, nel loro habitat.
Non che durante il giorno, all'università o semplicemente al supermercato, non venissimo mai in contatto con i germanici, ma è risaputo che per comprendere a fondo un popolo o una specie animale, è fondamentale osservarne i riti d'accoppiamento. E tali riti, si sa, tendono a svolgersi più frequentemente dopo il tramonto.

C'è poco da fare, nonostante l'Europa unita, la globalizzazione, e un mondo che si fa sempre più piccolo, certi atteggiamenti, anche in culture per altri versi vicine ed affini, continuano a rimanere diversi.
Noi donne italiane, tutto sommato, non possiamo lamentarci. I nostri uomini, seppur abbondantemente forniti d'innumerevoli difetti, hanno il vantaggio di essere per lo più espliciti e chiari. Certo, anche da noi esiste il tipo timido, ma vi assicuro che il più timido degli italiani è uno sfacciato senza vergogna rispetto al tedesco medio. Al tedesco medio sobrio, ovviamente, perché a far gli splendidi quando si è ubriachi come cucuzze sono capaci tutti. Persino i tedeschi.

Il tedesco medio (sobrio) fa lo sguardo da pesce lesso da lontano, può perfino arrivare ad accennare un tiepido sorriso, ma non si muove dalla propria posizione neanche a pagarlo oro. Lui sta là, con le scarpe incollate al pavimento, aspettando che sia la donna ad avvicinarsi. E infatti la donna tedesca, abituata al tedesco medio, non solo nei millenni ha imparato a coglierne le sfumature e i piccoli cambiamenti d'espressione, ma ha finito con lo sviluppare un'esibita sicurezza, molto spirito d'iniziativa, ed anche una certa molesta aggressività. Insomma, se non fosse per l'esuberanza e la schiettezza della mulier germanica, questi poveracci si sarebbero estinti da un bel po'.

La donna italiana media, invece, all'inizio neanche si accorge dello sguardo insistente dell'homo germanicus. E, anche nel raro caso in cui se ne renda conto, non ne comprende le finalità ma pensa che le sia rimasto un pezzo d'insalata tra i denti, oppure di avere i capelli in disordine o, semplicemente, di essere vittima di un tizio strano con lo sguardo perso nel vuoto.

Ovviamente, a forza di frequentare la fauna locale, anche la mulier italica più rimbambita imparerà ad interpretare i segnali inviati dalla popolazione maschile. Ma, nonostante questo, sceglierà spesso di attendere algida la mossa definitiva di avvicinamento del maschio. Che lo faccia per mancato spirito di adattamento, orgoglio o insicurezza, non è dato saperlo. Ma, fatto sta, che una scelta del genere la si paga, e la si paga molto cara.

Il tedesco medio può metterci ore, giorni, settimane, addirittura mesi a decidersi.
Ed è per questo che la donna italiana media, nel caso si ostini a non voler fare propria la sicurezza e l'intraprendenza delle amiche teutoniche, deve rassegnarsi a esercitare una pazienza biblica, quasi mitologica. E, nel frattempo, può dedicarsi a rilassanti hobby, come il giardinaggio, l'uncinetto, il découpage o le capocciate al muro.

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Pancrazia in Berlin - Il Ritorno

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