giovedì 26 aprile 2012

19. Berlin bei Nacht

Durante le serate infrasettimanali rimanevamo murati vivi all'interno dello studentato, vittime di un'infelice rete di trasporti notturni. Per passare il tempo si organizzavano megacene di gruppo, estenuanti sedute di gossip selvaggio, o party a tema. Si andava dalla festa "tutti col cappello!", ideata da braccia rubate alle giornate della moda milanese, a "la nostra terra è l'Africa", in cui, più pallidi di una mozzarella di bufala, ci scatenavamo agitando i nostri sederoni in danze tribali, sotto lo sguardo allibito e divertito dei numerosi keniani presenti.

Allo scattare del week end, invece, si migrava in massa, vocianti e felici, verso le feste ed i locali che Berlino aveva da offrire. Le varie facoltà organizzavano quantità incredibili di serate per Erasmus, come se l'università tedesca, sotto sotto, fosse convinta che non fossimo in grado di gestirci e divertirci da soli. E certo! Solo un'istituzione teutonica può seriamente pensare che migliaia di ventenni, provenienti da ogni angolo della terra, abbiano bisogno di essere presi per mano e guidati per socializzare tra loro. Del resto, eravamo tutti così timidi e riservati.

Ma mentre gli Erasmus Party si susseguivano, tutti uguali uno dopo l'altro, noi iniziammo l'esplorazione della vera vita notturna berlinese, quella ErasmusFree. Perché ogni tipico studente Erasmus ha un solo obiettivo finale e definitivo: non essere un tipico studente Erasmus. Distinguersi dalla massa per poi mimetizzarsi abilmente nella vita di società all'ombra della porta di Brandeburgo.
Seppur con il mio maccheronico tedesco, io lo dicevo forte e chiaro: "Wir muessen integrieren!" (*)

In Germania a quei tempi, e forse anche adesso, andava molto di moda la musica techno. Andare a ballare voleva dire andare a ballare la techno. Andare in discoteca voleva dire andare in discoteche tecno. E via dicendo. Io e gli allegri figuri con cui mi accompagnavo avevamo, tra le altre cose, una caratteristica comune: schifavamo la musica techno. Tutti. Tutti tranne Gra', ma lei non contava perché alle 22:30 già c'aveva sonno, perdendo ogni diritto di scelta e opinione.

Sotto la guida di Ben, il nostro britannico cicerone che lavorava a Berlino già da qualche tempo, ci lanciammo nella ricerca di locali dove la facessero da padrone t-shirt stropicciate invece di aderenti magliettine in lycra. Dove trionfassero capigliature selvagge invece che ciuffi scolpiti. Dove risuonassero ancora i vecchi successi dei Nirvana invece che l'orrido tunz tunz tunz.
Luoghi dove pogare fosse un'arte e anche una vocazione.

I nostri tre principali punti di riferimento divennero: l'Uni Club, il Sage Club, e il Nonmiricordocomecacchiosichiamava Club.

Ecco, all'alba del diciannovesimo capitolo, per la prima volta, la mia memoria di ferro mostra una falla: il Nonmiricordocomecacchiosichiamava Club. E pensare che l'abbiamo frequentato tantissimo, con la sua scalinata subito dopo l'ingresso, i cubi ai bordi della pista, e le strobosfere economiche. E pensare che, a distanza di tanti anni, tra quelle scolorite quattro mura si parla ancora delle italiane. Quelle che bisognava sbattere fuori a calci, che non lasciavano la pista neanche quando ormai era deserta, che non si sedevano mai ma piuttosto sfilavano via le scarpe, e riprendevano a scatenarsi a piedi nudi. Fastidiose, egocentriche ma piene di vita.

Il Sage Club era un posto particolarmente noto e di tendenza. La maggiore attrazione del locale consisteva in un drago che spuntava da una parete e, periodicamente, lanciava impressionanti fiammate dalle proprie fauci spalancate. Ad ogni rovente alitata nell'ambiente si spandeva un gradevole teporino e un inconfondibile puzza di capelli bruciacchiati, poiché qualche lungagnone sprovveduto e un poco pirla che ballava troppo vicino al mitologico rettile lo si trovava sempre.
Inoltre, scendendo le scale e superando una cortina fumogena data dagli effetti speciali e la forte umidità, si accedeva al piano inferiore, dove la musica si faceva più rock e i pogatori più spietati. Praticamente il paradiso.

Ma la mia più grande passione era e rimane quella spartana bettola sotterranea chiamata: Uni Club. Fu lì che scoprii quanto i tedeschi potessero diventare socievoli se sufficientemente ubriachi. Fu lì che capii che avere come guida un ragazzo inglese avrebbe messo a dura prova i nostri fegati. Fu lì che imparai che gli U2 in terra germanica non vengono chiamati U-zwei, come brillantemente chiesi al dj che infatti si sta ancora rotolando a terra dal ridere, ma U-two.
Fu lì che collezionai un altro dei miei memorabili episodi. La cosa non vi stupisce, nevvero?
Un ragazzo tedesco mi chiese sommessamente e con fare furtivo delle cartine per rollarsi una canna ed io, che ovviamente non avevo capito una mazza ma morivo dalla voglia di rendermi utile, feci partire un chiassoso passa parola che manco il telefono senza fili all'asilo è in grado di creare uno scompiglio tale. Che poi, onestamente, io sarò anche rimbambita ma, se i tedeschi ogni tanto si sforzassero di usare un minimo di gestualità ed il tizio si fosse limitato a fare il gesto internazionale del rollaggio canne (l'oscillazione simultanea antero posteriore di entrambi i pollici), ci saremmo risparmiati tutti tanta fatica e mezz'ora d'incomprensibili traduzioni.

Ma, soprattutto, fu all'Uni Club che venni in contatto per la prima volta con la musica tedesca e con i mitici Die Aertze e la loro "Zu spaet". L'inno definitivo di tutti i patetici cuori spezzati che non si arrendono di fronte alla realtà e sognano finali alternativi in cui primeggiare.
Il protagonista della canzone, uno sfigato ignorante, squattrinato e innamoratissimo, viene lasciato e, dopo aver passato due settimane a piangere come un pupo, scopre che la sua ex si è messa con un tipo sofisticato e pieno di soldi. Oltre il danno la beffa!
La rivalsa fisica è fuori discussione poiché il nuovo ragazzo, l'odioso figuro, è anche campione di Karate, e allora il nostro teutonico cuore infranto non può far altro che sognare un futuro di successo. Un futuro in cui avrà tutto ciò che vuole, spezzerà il cuore a mille ragazze adoranti e quando lei tornerà, perché l'infida approfittatrice sicuramente tornerà, le sbatterà in faccia un bel Zu spaet! Troppo tardi!
Un gioiello d'ironia, ebbene sì anche i tedeschi sanno essere ironici, e ritmo travolgente.

Avanti, cantiamo tutti assieme la nostra rivalsa. Urliamo al cielo la nostra vendetta. Prendiamoci al fine la giusta soddisfazione: "Zu spaet, zu spaet, zu spaet!"

Lo so che la qualità del video è incommentabile, ma non trovate anche voi che dia al tutto un affascinante tocco molto "Berliner Graffiti"?
Comunque, per una versione più recente, cliccate qui.

Continua...

(*) La mia intenzione era quella di dire "Dobbiamo integrarci", ma in realtà me ne uscivo con uno sgrammaticato e criptico "Noi dobbiamo integrare"

7 commenti:

  1. Era l'ora!
    Cavolo, sentivo la mancanza!

    ---Alex

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    1. C'ho messo parecchio ma sono tornata con tanto di riminiscenza musicale :P

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    2. Brava! Adesso vedi di non sparite per altrettanto tempo! ;-)

      ---Alex

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  2. "se i tedeschi ogni tanto si sforzassero di usare un minimo di gestualità". è la battuta più bella di tutto il post!

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    1. Fantastica la tua risposta al mio commento! Ovviamente scontatissima la mia: per gli italiani sono composta e mi esprimo pochissimo col corpo, agli occhi dei tedeschi sembro la solita gesticolona italiana, che accompagna qualunque discorso con mille movimenti inutili delle mani! :-)

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  3. Bellissima zu spät, e bellissimo essere arrivato da pocho giorni a Monaco e leggermi il tup blog. Mica te lo sarai poi sposata il tuo buddy, vero?

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